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IMMAGINI, IMMAGINI, IMMAGINI
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IMMAGINI, IMMAGINI, IMMAGINI

In un testo generale sull’opera di Philip Tsiaras, scritto nel 1995 in occasione di una monografia e di una serie di mostre, individuavo alcuni nuclei forti del suo lavoro in certi concetti e parole-chiave, che si rivelavano immediatamente evidenti nelle foto, nei quadri, nelle sculture: compressione, oggetto, horror vacui, accumulazione, Biblioteca di Babele, stratificazione, flusso.

Ciascuno di questi concetti è in Tsiaras contemporaneamente causa ed effetto, pulsione e risultato, sia per l’immediatezza del trasferimento dell’idea nella concretezza dell’opera, visibile soprattutto nelle tele, sia a maggior ragione per l’esatta corrispondenza del pensiero di Tsiaras con le sue azioni artistiche. Infatti, l’atteggiamento dell’artista nei confronti del mondo che lo circonda si rispecchia perfettamente nella varietà delle sue opere, e all’interno di ogni singolo “genere” in cui si cimenta, questa “compressione” dì immagini e di oggetti è ancora presente.

In questo, Tsiaras appare ai nostri occhi assolutamente americano, benché le sue origini e la sua cultura familiare greca traspaiano in alcune opere: la civiltà dell’immagine e la cultura dell’oggetto si coniugano nel suo lavoro con una disinvoltura operativa che non,è soltanto maestria tecnica, ma qualcosa di più profondo, di più connaturato con un sentimento della realtà per così dire saturato di immagini e di oggetti, e che proprio per questo hanno tutti lo stesso valore.

E forse per questo che Tsiaras è in grado di passare, di scorrere come una di queste immagini, attraverso le varie discipline linguistiche, senza sposarne nessuna, ma conoscendole e “usandole” tutte. Pittura, scultura, fotografia e, non ultima, la poesia (per la quale ha ottenuto riconoscimenti ufficiali tutt’altro che secondari) sono espressioni di quel flusso di sensazioni che non si ferma mai, incalzato dall’immagine successiva, dall’altro oggetto sullo scaffale, da questo o quel ripiano della memoria pieno zeppo di immagini, prima che di ricordi, oppure di ricordi che hanno perduto quel loro aspetto personale, vissuto, per diventare soltanto immagini.

Non è stato così sin dal principio, per Tsiaras, ma tutto era già in luce. Tutto portava a questa continua sedimentazione, a questo accumulo che aggiungeva figure a figure, oggetti a oggetti sino a cancellarne quasi tutti gli aspetti simbolici e metaforici, per restituirli allo sguardo per quello che sono e che erano, semplici oggetti, normali riproduzioni di una vita fatta di oggetti e di immagini.

Sembra strano che chi, come Tsiaras, ha iniziato con la parola poetica (ricevendo tra l’altro l’American Academy Award for Poetry nel 1975), possa decidere di abbandonarsi alla babele degli oggetti, sin quasi a farsi coscentemente travolgere: la parola della poesia, anche quando è “automatica”, è sempre calibrata, misurata, precisa, definita, decisa…è così anche per Tsiaras, ed è così anche per le sue prime fotografie, maturate attorno alla metà degli anni Settanta: le Motion pictures stabiliscono un confine tra l’immagine definita e il movimento, tra l’essere e il divenire, ma già nei pochi collages esiste l’idea di stratificazione, di un’immagine sopra l’altra, di una nuova concrezione di figure che compongono una nuova figura. Allo stesso modo, nelle foto di architetture degli anni Ottanta, cui l’artista

 

sovrappone una specie di texture naturale, riprendendo la graniglia minuta di un pavimento, o un acciottolato, o dove interviene anche con la tempera, con una partizione pittorica o riprendendo a pennello alcuni particolari, quel mondo definito, fatto di oggetti e di figure identificate viene meno, si trasforma in una stratificazione, in una specie di horror vacui dove il cielo dietro le costruzioni non può essere così vuoto, ma deve essere riempito, saturato di segni. Ma è con la serie sua più famosa, il Family Album, elaborato anch’esso nel corso di quel decennio, che il flusso di oggetti e di immagini diventa preponderante, quasi ossessivo, anche al di là della narrazione che pure viene suggerita dai personaggi, dalle loro posizioni, dai loro gesti. Nel 1995, a proposito di questa bella serie di fotografie, scrivevo: “si tratta quasi di un diario, e non solo perché viene collocato sotto l’intrigante titolo di Family Album (chè, anzi, proprio questo titolo indica già un distacco, una distanza venata di tenerezza, ma anche di ironia), ma perché è la testimonianza diretta di un incontro tra il soggetto e gli oggetti, risoltosi tutto a vantaggio di questi ultimi. Il corpo atletico si riduce ad essere un corpo in mutande entro una stanza stracolma di souvenir; di soprammobili, di gadget; che ribadiscono il concetto di una memoria’storica ormai irrimediabilmente distorta dai mass media: la famiglia, l’artista, la moquette, il Sacro Cuore di Gesù, le vedute di Atene in 3-D, il David di Michelangelo in polvere di marmo e plastica, alto un metro, è questa la memoria, dove si trova anche una buona dose di felicità, una volta accettato lo scivolamento, il décalage verso una cultura di massa. Solo in certe foto scattate nel deserto, tra Stati Uniti e Messico, si ritrova il concetto di corpo nel suo rapporto primario con la natura, ma ciò avviene per la forzata assenza in quella civiltà degli oggetti di consumo, dovuta appunto alla mancanza di consumatori (il deserto, si sa, non è un luogo molto affollato…).”

Quello che è accaduto per le fotografie (il progressivo riempirsi e saturarsi del campo visivo, quasi travolto da una valanga di oggetti), accade anche per le sculture in ceramica e in bronzo, dove quelle incrostazioni cromatiche quasi lussureggianti delle ceramiche fondono insieme i gli oggetti più disparati, un Crocifisso e un’automobile, una scarpa col tacco a spillo e un revolver, e dove al contrario la freddezza del metallo mostra l’incongruenza della vicinanza di oggetti tanto diversi come quelli appena citati, e che pure, dopo un pò, vengono accettati come residuo di qualcosa, una sorta di trash di lusso e non guardato con lo stupore dei Surrealisti…

Resta la pittura, che ormai è l’attività principale di Tsiaras, e che a una prima sommaria descrizione di temi e soggetti potrebbe apparire in contrasto con quanto detto sinora: infatti, l’artista sulla tela sembra procedere per generi e per temi singoli – le “teste”, i “vasi”, gli “aeroplani” e ora, da circa tre anni, i “cavalli”, contraddicendo in tal modo quel senso di accumulazione, di compressione, di stratificazione che si riconosce nelle altre produzioni. Non è così, e basterebbero i suoi “sandwich” a dimostrare il contrario, tanto sono asseverativi nella loro semplicità di accumulazioni di tele, una sopra l’altra, tutte ugualmente dipinte, ma

di cui si può cogliere soltanto l’immagine dell’ultima, metafore facili di quel “mondo di immagini” che ci travolgerebbe, se noi stessi non ci facessimo trasportare dal suo fluire. Ma nelle grandi tele,così come nei cicli numerosissimi di disegni, non occorre neppure che siano le immagini a farsi avanti nella loro infinita quantità: sono i modi stessi della pittura, la sua stesura, la scelta dei colori, la disinvoltura dei gesti che li stendono sulla superficie, a parlarci di quel flusso, di quel continuo trascorrere di figure, di sensazioni visive che non costituisce lo scenario della nostra vita, ma è la nostra vita stessa. Così, l’artista prende a prestito soggetti consueti, quasi abusati, per evitare che ci fissiamo sul contenuto di queste immagini, sul loro significato: non è importante il significato, anzi, quasi non esiste più, così come ogni valore simbolico sbiadisce, si perde dietro la forza dell’immagine, che sembra essere l’unica vera presenza, l’unica prova dell’esistenza del mondo. Allo stesso modo, la pittura si deve soltanto preoccupare di rendere, di restituire il senso (e forse addirittura soltanto la sensazione) di questo continuo fluire: la disinvoltura del dipingere non è che questa estrema sapienza.

Marco Meneguzzo